30/05/2025
Your wedding, your way💐
✨This is the place where all your dreams come true✨
Weddings💍| Exclusive events 🥂
For Not Ordinary Couples💛
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
Extraordinary Weddings for Not Ordinary Couples. Only Destination Weddings | Exclusive Events
(1282)
Your wedding, your way💐
✨This is the place where all your dreams come true✨
Weddings💍| Exclusive events 🥂
For Not Ordinary Couples💛
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
Here, in the hush before forever, Montignano wraps you in its quite kind of magic.
✨This is the place where all your dreams comes true ✨
Weddings💍| Exclusive events 🥂
Not for Ordinary Couples💛
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
ph: Luisa Basso
Do you want to live a dream? Castello di Montignano is the answer💗
✨This is the place where all your dreams comes true ✨
Weddings💍| Exclusive events 🥂
Not for Ordinary Couples💛
Ph:
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
From a dreamy sunset celebration to joyful moments shared, sealed with a promise of eternity, all at the timeless Castello di Montignano.
✨This is the place where all your dreams comes true ✨
Weddings💍| Exclusive events 🥂
Not for Ordinary Couples💛
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
A quiet moment, a sparkling promise.
At Montignano, even the smallest details tell a story of love.
✨This is the place where all your dreams comes true ✨
Weddings💍| Exclusive events 🥂
Not for Ordinary Couples💛
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
Who said fairytales need to be quiet?
A castle, a crazy kind of love, and a day you will never forget.
Wild hearts, soft vows, and a view made for forever.
Weddings💍| Exclusive events 🥂
Not for Ordinary Couples💛
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
Not just a detail of the wedding day,
a timeless memory of moments and hearts full of joy and promises.
For the groom, a piece of eternity in his pocket.
Weddings💍| Exclusive events 🥂
Not for Ordinary Couples💛
ph:
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
Feel free, ethereal, loved and deeply grateful for the people you are surrounded by: Montignano makes you live a dream that you will never want to leave.
Where every moment seems light as air and full of love.
Weddings💍| Exclusive events 🥂
Not for Ordinary Couples💛
🌐Book now at:
+39 366 444 6299
Loc. Montignano, 6
Massa Martana
06056
http://www.montignano.com/, https://www.weddingsonline.ie/blog/?p=488459
Lasciando la tua email puoi essere il primo a sapere quando Castello Di Montignano pubblica notizie e promozioni. Il tuo indirizzo email non verrà utilizzato per nessun altro scopo e potrai annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.
Invia un messaggio a Castello Di Montignano:
LE ORIGINI
Secondo quanto scrive lo storico tuderte Giovanni Battista Alvi nella sua preziosissima opera manoscritta intitolata Dizionario Topografico Tudertino, redatta nel 1765, il nome del castello sarebbe da attribuire alla venerazione che, in questi luoghi, era rivolta ad una non meglio identificata divinità romana denominata Montinio da cui Montignano.
Se ci sembra prudente non prendere in considerazione questa particolare etimologia, che rientra nelle fantasiose e spesso bizzarre congetture degli eruditi settecenteschi, d’altra parte il suffisso prediale a**s, comune a tantissimi toponimi dei dintorni e non solo, sta proprio ad indicare l’esistenza di un insediamento romano.
L’origine romana del territorio di Montignano trova riscontro nei numerosi ritrovamenti archeologici che sono avvenuti a partire dal XVIII secolo in avanti e questo non deve destare meraviglia se pensiamo alla posizione geografica del castello: al ridosso della Flaminia, importantissima via consolare romana, e del Vicus ad Martis, nucleo abitato di età romana anch’esso prospiciente la Flaminia .
Il tracciato della strada venne realizzato nel 220 a.C dal console romano Caio Flaminio il Vecchio, da cui prese il nome, assumendo immediatamente un ruolo di primo piano tra le vie di comunicazione dell’Italia centrale fino al VI secolo, come asse di congiunzione tra Roma e l’Adriatico. Essa infatti, con un percorso diagonale che partiva da Roma, entrava in Umbria ad Otricoli, da qui si portava a Narni per poi raggiungere Carsulae e il Vicus ad Martis, proseguendo ancora fino Rimini.
Una funzione fondamentale quella svolta dalla Flaminia nell’economia degli scambi commerciali e della difesa militare, con essa infatti si raggiungeva speditamente la costa adriatica settentrionale e da lì l’ager gallicus, superando agevolmente la barriera naturale della catena appenninica; per questi motivi fu tracciata nel modo più rettilineo possibile e ciò richiese ponti e viadotti. Resta ancora nelle vicinanze di Montignano, in ottimo stato di conservazione, un ponte romano, chiamato Fonnaia, che attraversa il torrente Naja. L’opera, ad un solo arco, ha una altezza di 8 metri, è larga 3,40 ed è profonda 15 con un asse fortemente inclinato rispetto al sovrastante asse viario.
La località più importante vicino a quello che in epoca romana era il predio o meglio la villa rustica ove oggi sorge Montignano è il Vicus ad Martis, plausibilmente corrispondente all’odierna Santa Maria in Pantano. In origine era una statio ossia un luogo ove si albergava e si effettuava il cambio dei cavalli, come testimoniato da una epigrafe riferita ad un collegium iumentariorum e dove, forse, vi sarebbe potuto essere anche un tempio dedicato a Marte. L’abitato andò sempre più acquistando rilevanza e si ingrandì anche dopo i lavori eseguiti lungo la via dagli imperatori Augusto ed Adriano.
Con la romanizzazione le popolazioni residenti in queste località vennero ascritte alla tribù Clustumina: la diciottesima tra le trentuno tribù rustiche, ossia territoriali, in cui era stata suddivisa l’Italia in età augustea per finalità politico amministrative e che comprendeva ben dodici città tra cui Amelia, Carsulae, Terni, Narni, Todi, Bettona, Città di Castello. Nel 40 a.C. Todi e Spello divennero sedi di colonie militari e molti terreni del tuderte furono riservati ai reduci della ###I Legione Fida, dunque è plausibile che a Montignano diversi appezzamenti agrari furono conasegnati ai legionari come ricompensa al servizio prestato.
Le epigrafi rinvenute nella zona sono il chiaro segnale di un buon numero di insediamenti rustici sorti in età romana attraverso il percorso della Flaminia: tra di esse, quelle murate nella facciata dell’Abbazia di San Faustino ricordano Lucius Iulius Marcia**s della potente e ricca Gens Marciana. Ci troviamo di fronte alla famiglia più facoltosa della zona: si presume infatti che ove oggi sorge l’Abbazia di San Faustino vi fosse una Villa o un Fundus Marciano con proprietà diffuse fino a Montignano.
La presenza romana, come già detto sopra, è stata nel corso dei secoli documentata grazie a non pochi scavi archeologici: epigrafi, oggetti vari, monete e statue. Nel 1744 il parroco del castello Don Bernardino Favarelli ebbe notizia che, adiacente al lago di Montignano, un contadino aveva rinvenuto un vaso pieno di oltre 150 monete di bronzo con sopra raffigurate la lupa dormiente, la lira, l’ancora, la rana, la clava, una mano, un vaso, una lancia. Pochi giorni dopo il sacerdote segnalò che un bracciante si era imbattuto in altre monete. Ricordiamo che già tre anni prima, nel 1741, tra Montignano e l’Abbazia di Santa Maria in Pantano la terra aveva restituito una bellissima statua femminile di marmo.
Il 4 aprile del 1838 il governatore di Todi, Dario Calisti Ficedola, scriveva al Delegato Apostolico di Perugia in merito ad alcuni oggetti di bronzo e rame rinvenuti a Montignano grazie ad uno scavo abusivo in un terreno del conte Francisci in vocabolo campo San Giovanni. Gli oggetti, appartenenti al Francisci, si dispersero ad eccezione di due inviati ai Musei Vaticani: di essi oggi resta una sola fibula bronzea a navicella, databile all’VII secolo a.C, a documentazione di come, prima della romanizzazione, vi fossero già stanziate da popolazioni italiche. Ancora nel 1836, in vocabolo Cicognola, alle pendici del castello di Montignano, in un predio di proprietà del nobile massetano Adeaodato Luzi, furono restituite alla luce due erme a forma di satiro, anch’esse inviate l’anno successivo a Roma per essere vendute al Museo Vaticano dove oggi si trovano.
1. LA PORTA DEL CRISTIANESIMO
La Via Flaminia che dall’età Repubblicana all’età imperiale si qualificò come il principale asse viario percorso dai traffici commerciali tra Roma e l’Italia del Nord, subì un lento decadimento in epoca Tardo Imperiale. La strada però non si limitò a facilitare il transito di merci e di eserciti ma fu anche un veicolo assai efficace per la diffusione del cristianesimo anche in queste zone legate al Vicus ad Martis.
La trafficata arteria fu dunque, insieme al Tevere📷📷, un forte elemento unificante che offrì alla nuova religione l’accesso ai territori interni dell’Umbria anzi ne fu il solo strumento di trasmissione non avendo la regione altri sbocchi.
A riprova della peculiare diffusione in questi luoghi del verbo evangelico si segnala la presenza di una catacomba, denominata di San Faustino, unico monumento del genere esistente in Umbria. Per trovare altre aree cimiteriali paleocristiane dello stesso periodo dobbiamo spostarci nel Lazio ed in Toscana: Bolsena, con Santa Cristina, e Chiusi, con Santa Caterina e Santa Mustiola, tutti siti posti sulla Cassia. La catacomba, scoperta nel ‘600 dal nobile Giuseppe Mattei di Massa, era un luogo di sepoltura, esse sono la prima effettiva testimonianza materiale del Cristianesimo tra II-III secolo d.C.
Anche per il cimitero di San Faustino la vicinanza con la Flaminia conferma la prassi di porre le catacombe non in luoghi nascosti e sconosciuti ma anzi in prossimità di strade e nuclei abitati. Il numero dei cubicoli abbastanza contenuto, circa 800, fa pensare che il cimitero, una sorta di ipogeo di campagna, dovesse essere al servizio degli abitanti delle zone circostanti, dei predi e delle ville rustiche che in antico formavano il primitivo insediamento di Montignano.
Agli albori del Cristianesimo una Santa legò il suo nome a Montignano: Degna, protettrice della città di Todi insieme a santa Romana, san Callisto, san Cassiano e san Fortunato. Degna, per sfuggire alle persecuzioni degli imperatori romani Diocleziano e Massimiano, si allontanò da Roma scegliendo la via dell’ascesi e del romitaggio. Scarse sono le conoscenze riguardanti la sua vita che ci vengono riportate da vari eruditi. Giovanni Battista Possevino, nel volume Vite dei Santi e Beati di Todi stampato a Perugia nel 1597, in pochissime righe ne ricostruisce i dati essenziali: “ Di questa Santa non s’ha altro, se non che fuggendo la persecuzione visse e morì santamente. Ne fa menzione il martirologio Romano sotto questo dì 11 agosto”. Fissò la sua dimora, stando quanto ai cronisti, in un “tugurio” prossimo al lago di Montignano da dove, dopo tre anni di sacrifici, privazioni e mortificazione della carne, principiò a radicarsi tra la popolazione la sua fama di santità.
La donna, incurante dei pericoli cui sarebbe andata incontro, si impegnò in una tenace opera di apostolato e di conversione al cristianesimo nei riguardi di tutti coloro che si rivolgevano a lei. Morì l’11 agosto del 303 d.C. ed il corpo fu tumulato in una piccola chiesa nei pressi di Montignano, nella quale aveva trascorso i suoi ultimi giorni una volta abbandonato le grotte di Canale vicino ad Amelia.
Dell’edificio oggi non restano che pochi avanzi, appena fuori l’abitato del castello, che ci consentono di individuare le mura perimetrali e l’abside in pietra squadrata. Nel 1297 il corpo della Santa venne traslato sotto l’altare maggiore della chiesa di San Fortunato a Todi dal vescovo della città Niccolò Armato insieme con Fortunato, Degna, Cassiano e Romana ed ha poi trovato definitivo riposo nella cripta del medesimo tempio fatta erigere dal vescovo Angelo Cesi nel 1596: in tale occasione scrive sempre il Possevino, “…fu osservata la differenza ch’era tra le membra e corpo di santa Romana che erano da fanciulletta appunto quale essa era di dieci anni, e di Degna qual fu donna grande e provetta”.
Altra figura di santo legata al territorio è quella San Faustino che, come già detto apparteneva alla gens romana Marciana tra le più ricche della zona. Fu discepolo di San Felice ed ebbe delle visioni di angeli mentre pregava sulla tomba del suo maestro a Giano.
2. IL CORRIDOIO BIZANTINO
Con la deposizione dell’ultimo imperatore romano Romolo Augustolo nel 476 d.C. cessava di esistere l’Impero Romano d’Occidente e tutta la pen*sola fu travolta dalle violenze delle invasioni barbariche. La Flaminia, posta a circa dieci chilometri da Todi, era ormai pressochè abbandonata, servendo quasi esclusivamente per il transito delle genti in fuga da Roma invasa da Odoacre re dei Rutili.
In realtà la disgregazione dell’Impero Romano d’Occidente e le invasioni barbariche avevano avuto una prima avvisaglia già nel 410, quando Alarico re dei Visigoti mise a ferro e fuoco la città eterna. La Flaminia era divenuto il tragitto obbligato per la discesa verso Roma con tutte le conseguenze devastanti che questa vicinanza comportava per i castelli e gli insediamenti abitativi, ora luoghi privilegiati per razzie e saccheggi.
Data la collocazione dell’abitato di Montignano e del Vicus ad Martis non esitiamo a credere che anche per questi si prospettò un clima di notevoli turbamenti tali da portare ad un repentino spopolamento dei centri abitati se non proprio ad arrivare ad una distruzione come accadde per il Vicus ad Martis. In questi frangenti di preoccupante incertezza sia amministrativa che economica l’unico punto di riferimento, capace di assicurare unità e nel contempo protezione, era rappresentato dalla figura del Vescovo. La storia della Diocesi di Todi, una fra le più antiche di Italia, ha visto il succedersi di esaltanti figure di Pastori che hanno saputo eroicamente sopportare persecuzioni e martiri, primo fra tutti san Terenziano, vissuto e martirizzato con l’imperatore Traiano
Dal V secolo l’Italia sopportò l’invasione dei Goti, spediti nella pen*sola dall’Imperatore Romano d’Oriente Zenone per fronteggiare Odoacre. l’Arrivo di questa popolazione germanica sarà poi il motivo scatenante dell’avvio della cosiddetta guerra greco-gotica, combattuta appunto tra i goti e i bizantini. Lo scenario o meglio il campo di battaglia dello scontro coinvolse le nostre zone dato che l’Umbria insieme con la Flaminia erano luogo di passaggio tra Roma e Ravenna, sede dell’esarcato: una sottile striscia di terra che univa le due importanti città su cui transitavano e si fronteggiavano i rispettivi eserciti, meglio conosciuta con il nome di Corridoio Bizantino.
I protagonisti furono il generale goto Vitige e quello bizantino Belisario, impegnati in un estenuante combattimento che lasciava dietro di se una lunga scia di morte e distruzione. Belisario nel 536 occupava Roma costringendo alla fuga Vitige, questi a capo di 4000 soldati si spostò verso Ravenna transitando per la Flaminia: uomini affamati, spaventati ed in fuga passarono per i luoghi intorno a Montignano, sottoponendo a devastazione tutto quello che incontrava nel suo disperato cammino.
Stando a quanto scrive Gaspare Maria Stella nel libro intitolato Vite dei Santi e Beati della città Martana, il Vicus ad Martis venne definitivamente distrutto nel 546 a seguito di una forte spinta offensiva di Totila. Il re goto aveva aggredito tutte le città umbre che in quel momento occupavano una posizione strategica, con il preciso scopo di accaparrarsi il controllo sulle vie che univano Roma a Ravenna, compresa quindi la Flaminia, ed impedire che i bizantini potessero localizzare luoghi da fortificare per poi respingere l’incursione.
In questa controffensiva caddero in mano gota anche Todi ed Amelia mentre Perugia resisteva strenuamente alle ripetute aggressioni. La fine del Vicus ad Martis provocò da una parte lo spopolamento dell’intera zona, ormai resa indifendibile ed insicura, e dall’altra lo spostamento della popolazione in alto, sul versante dei monti martani, o sulle colline soprastanti la via Flaminia. Fu a seguito di queste necessita di sopravvivenza che si formarono i castelli di Colpetrazzo, Mezzanelli e Montignano. Verosimilmente anche Montignano sarebbe stata cinta di mura ed ingrandita dalla popolazione transfuga dal Vicus ad Martis la quale avrebbe scelto di trasferirsi sulla collina più alta e vicina per edificare un altro paese. Questa tesi sarebbe avvalorata anche dal materiale romano di reimpiego presente nel castello e dal nome assunto: Poggio di Santa Maria in Pantano.
Nel 548 anche Perugia cadde in mano gota, ma la guerra ormai stava volgendo al termine delineandosi all’orizzonte una vittoria dei bizantini. A Tagine, vicino Gualdo Cattaneo, i goti vennero duramente sconfitti nel 552 e Totila morì sul campo causando la riconquista da parte dei bizantini di tutti i territori perduti tra i quali anche Todi ed i centri lungo la Flaminia come Montignano ora conosciuto ripetiamo anche con il nome di Poggio di Santa Maria.
Un’altra etnia scendeva in Italia nel 568: i Longobardi. Dal Friuli si spostarono all’interno della pen*sola dando ai territori occupati una suddivisione organizzata in Ducati, di questi uno dei più rappresentativi per estensione e potenza fu quello di Spoleto con il suo primo duca Faroaldo. Da principio furono assoggettate le città di Amelia, Orte, Perugia, Sutri e Todi e tutta la zona immediatamente al ridosso dei Monti Martani. Lasciata alle spalle una guerra così devastante come quella greco gotica se ne apriva un’altra non meno terribile che aveva come teatro degli aspri scontri l’Umbria centrale.
Un alternarsi di effimere vittorie e sanguinose sconfitte fecero ricadere l’agro Martano nella più totale instabilità provocata da una posizione che le rendeva una sorta di cuscinetto tra il ducato di Spoleto e il resto delle città umbre, con tutte gli ovvi effetti che ne scaturivano. I centri abitati cadevano continuamente ora in mano longobarda ora in mano greca restando il più delle volte dei tumuli di macerie .
Nel 752 Astolfo, re dei Longobardi, occupò tutto il territorio del tuderte e, alla sua morte, ancora non aveva restituito al Pontefice le città e i castelli precedentemente acquisiti.
Fu il pontefice Paolo I che, insieme con il re dei Franchi Pipino, cercò di addivenire ad una trattativa con il re dei longobardi Desiderio. Il risultato dell’accordo si concretizzò inizialmente col fissare i confini tra il Ducato di Spoleto e le città di Todi, Bevagna, Perugia ed Assisi. Questo rilevante atto, meglio conosciuto come placito di re Desiderio, descrive puntualmente tutti i termini di tale confinazione che si sviluppavano per l’intera dorsale dei monti Martani a pochissima distanza dal castello di Montignano che continuava così ancora una volta a trovarsi in un insicuro territorio di frontiera.
Sebbene questa delimitazione avesse dovuto chiarire la certezza degli ambiti territoriali e dare conseguentemente delle speranze per una pace più stabile, il conflitto non esitò a riacutizzarsi molto presto. Nel 761 tutto l’agro massetano e Todi erano di nuovo in mano longobarda. L’egemonia di questa popolazione nell’Italia centrale stava tuttavia per arrivare al suo epilogo: nell’estate del 773 Carlo Magno Re dei Franchi aveva battuto i longobardi e cingeva d’assedio la loro capitale: Pavia. I longobardi di Spoleto facevano atto di solenne sottomissione al Pontefice e il 6 aprile del 774 Carlo Magno prometteva di donare al Papa i possedimenti longobardi.
Iniziava così uno spazio di tempo di relativa tranquillità in cui Todi ed il suo territorio rientravano tra i beni del Ducato Romano.
3. GLI ARNOLFI
Nel 962 Ottone I di Sassonia veniva incoronato a Milano imperatore di Germania e Re d’Italia dal Pontefice Giovanni XII. La sua prima incombenza fu quella di creare una schiera di feudatari fedeli che potessero dare garanzie di un appoggio militare più capillare sull’Italia centro settentrionale, cercando in tal modo di porre fine all’anarchia territoriale e di sostituire una ceto feudale autonomo ed ingovernabile.
Tra questi aristocratici vi fu un certo Arnolfo, probabilmente tedesco, cortigiano e familiare dell’Imperatore di cui pochissime per non dire nulle sono le notizie che lo riguardano. A lui ed alla sua discendenza fu assegnata in feudo una vastissima area dell’Umbria centro meridionale distribuita tra Narni, Terni, Spoleto e Todi.
Questa contea, nominata Arnolfa dal suo primo feudatario, includeva: San Gemini, Cesi, Acquasparta, Massa, Portaria, Macerino, Castiglione, Porzano, Acquapalumbo, Appecano, Balduini, Fogliano, Rapicciano, Collecampo, Cisterna, Scoppio, Fiorenzuola, Messenano, Arezzo, Palazzo, Rivosecco, Azzuano, Villa San Faustino, Casigliano, Montignano, Mezzanelli, Castel del Monte, Configni, Scoiano, Belfiore, Quadrelli, Cicigliano, Montecastrilli, Avigliano, Collesecco, Farnetta.
Con la morte di Arnolfo il vasto territorio fu suddiviso tra i figli del conte tedesco che si ripartirono le proprietà in due settori di influenza: uno definito Montano e l’altro del Piano. Il ramo principale era detto dei Rapizzoni dal primogenito di Arnolfo: Rapizzo, l’altro detto degli Albertini da Alberto figlio secondogenito. Gli Arnolfi Rapizzoni detenevano il predominio su San Gemini, lungo il torrente Naja, i Monti Martani e al di qua ed al di là della Flamina quindi Montignano rientrava nella competenza di questi ultimi.
Dai due rami ne derivò una numerosa discendenza, questo portò alla formazione di altri nuclei familiari ed alla frammentazione dell’antica contea Arnolfa ora, alle soglie del mille, frazionata in più famiglie che esercitavano i loro diritti feudali. Il conte Rapizzone degli Arnolfi, Signore di Montignano, durante le aspre contese tra l’Impero ed il Papato, accolse le istanze imperiali, allineandosi apertamente a favore dell’antipapa Cadalo, vescovo di Parma, eletto Papa dall’imperatore Enrico IV con il nome di Onorio II.
Tra l’XI e il XII secolo i Rapizzono egli Albertini donarono molti loro terreni a favore dell’ abbazia benedettina di Farfa e tra questi anche Santa Maria in Pantano. Nel 1104 il conte Albertino figlio del conte Gualterio fece atto di donazione all’abbazia di Farfa di tutti suoi possedimenti nel Ducato di Spoleto e nel comitato di Todi tranne la sua porzione sul castello di Montecastro, disponendo che, se egli avesse legato per testamento questi beni ai suoi parenti, costoro per averli li avrebbero dovuti pagare o permutare con l’abate di Farfa.
Per tale cagione nel 1115 Beraldo III abate di Farfa stipulò un patto con gli eredi di Rapizzone concedendo loro l’ottava parte di alcuni beni del conte Albertino cioè: la Torre del Monte Martano, il castello di Scoiano, il castello di ripa de Bornia, il castello di Casigliano, il castello di Mezzanelli, il poggio di San Martino ed il Poggio di Santa Maria in Pantano ossia Montignano. Altre furono poi le cessioni a favore della Abbazia sintomi di un sempre più forte legame di queste famiglie feudali con le fondazioni monastiche e di un lento quanto inesorabile sgretolamento di una unità politica adesso sempre più ripartita e quindi anche depotenziata.
Dallo smembramento della grande contea Arnolfa fiorirono altri rami genealogici i quali, in alcuni casi erano diramazioni degli stessi Arnolfi, per altri si può solo ipotizzare una discendenza diretta o forse dai vassalli che ne avevano ricevuto i beni come riconoscimento di provata fedeltà. In questo modo si diffusero numerose famiglie feudali nel massetano le quali prendevano il cognome dal castello in loro possesso, dando origine a quella complessa struttura sociale, amministrativa, economica e familiare che va sotto il nome di signoria rurale. Troviamo dunque i nobili di Massa, i nobili di Villa San Faustino, i nobili di Mezzanelli, i nobili di Castelvecchio, i nobili di Castel Rinaldi, i nobili di Monticastro, i nobili di Ponte ed anche i Nobili di Montignano.
E’ complicato capire se i nobili di Montignano fossero un ramo degli Arnolfi, come ad esempio lo erano i nobili di Monticastro e di Massa, o non piuttosto una aggregazione familiare autonoma ed autoctona. Le fonti documentarie sono talmente limitate vista anche il periodo così remoto che siamo costretti a restare nel campo delle ipotesi.
4. LA SIGNORIA RURALE
Come precedentemente detto riguardo il Castello di Montignano tutte le fonti tacciono tra l’XI ed il XII secolo o comunque sono sempre flebili dati storici che non permettono di illuminare in maniera chiara tutta la sequenza degli accadimenti. Questa casata dei Nobili di Montignano sembra dunque vantare ampi diritti di proprietà sul castello e i territori circostanti.
La proprietà terriera era stata data in affitto con contratti di concessione orali, ma di lunga durata, così da garantire ai contadini che ne rispettavano le clausole un ampio possesso delle terre ricevute. I terreni passano in concessione di padre in figlio e avvolte poteva accadere che il contadino in difficoltà potesse addirittura vendere il suo contratto di affitto al vicino più abbiente, il quale doveva naturalmente farsi carico dei fitti.
Ogni famiglia era obbligata ad offrire alcuni doni come galline, uova, uva, ortaggi e tutto quello che veniva prodotto oltre che una serie di giornate lavorative con i propri animali per il trasporto ed il tiro. Queste prestazione che in termine tecnico si chiamano corves e costituiscono l’insieme dei privilegi su cui si basa appunto una signoria rurale o se vogliamo la vita quotidiana del feudo e del rapporto tra signore e contadino. E’ molto probabile che i nobili di Montignano abbiano posto in essere anche i loro poteri giudiziari sulle loro terre, con la facoltà di controllare e punire ogni comportamento giudicato pericoloso.
La famiglia imponeva insindacabilmente dei diritti sovrani infatti, oltre che un potere giudiziario e militare, al casato feudale spettava la riscossione diretta dei tributi grazie alle tasse che loro stessi riscuotevano. Tra XII e XIV secolo abbiamo a Montignano una concreto esempio di piccola Signoria che, riassumendo, si esplica materialmente con il diritto di comandare, la capacità di costringere, la facoltà di giudicare, la cura della difesa militare e dell’ordine sociale, la possibilità di richiedere imposte e contributi in denaro in natura ed in lavoro. L’insieme di questi fattori hanno portato gli storici a definire la formazione delle signorie rurali come uno stato in versione locale avendo due caratteristiche fondamentali quali il territorio e l’autonomia.
La diffusione per tutta la zona tuderte di un così alto numero di giurisdizioni di tipo signorile-feudale ancora nel XIII secolo era destinata però a scontrarsi con un’altra realtà: il comune di Todi, che contemporaneamente stava consolidando e allargando i confini delle sue attribuzioni istituzionale. Il comune nel XII secolo sembra che già fosse svincolato dalle ingerenze sia dalla potente contessa Matilde di Canossa, che del Pontefice, ma è difficile dire precisamente come e da chi fosse governato.
Sta di fatto che la città come primo obiettivo da raggiungere al fine di conseguire una effettiva autodeterminazione doveva pensare a sottomettere i nobili che la accerchiavano con i loro castelli. Questi nuclei feudali, vere e proprie spine nel fianco del Comune si distribuivano geograficamente a macchia di leopardo con delle diversificazioni tra una nucleo familiare e l’altro. Abbiamo così piccole oligarchie come quella dei nobili di Montignano ed estese aree anche extra regionali come quelle dei conti di Baschi che oltre ad avere feudi nell’alto Lazio, controllava in Umbria Castglione, Sermugnano, Civitella, Salviano, Scoppieto, Morre, Morruzze, Collelungo, Tenaglie, Montecchio ecc. I conti di Montemarte altra potente casata, estendeva i suoi domini tra la Toscana, l’Umbria, il Lazio e nel tuderte aveva ampi diritti su tutta l’area del Forello con i castelli di Montemarte Titignano e Pompognano. Da ultimo gli Alviano signori del castello di Alviano, Guardea, Lugnano Attigliano e gli Atti ed i Chiaravalle; queste ultime due famiglie saranno poi le protagoniste, l’una guelfa e l’altra ghibellina delle lotte politiche più aspre e cruente per imporre la propria egemonia sul comune di Todi.
Una quadro estremamente frastagliato, articolato in grandi e piccoli centri di potere locale che ancora non erano disposti a rassegnarsi a l’idea di obbedire a questa nuova istituzione comunale ma che anzi restavano tenacemente aggrappati alla loro porzione di territorio. Vi era il comprensibile rifiuto di accettare che l’istituzione feudale fondata su un modello aristocratico potesse tramontare per fare spazio a quella comunale basata al contrario su un concetto politico democratico.
Questi particolarismi territoriali difesero strenuamente la loro indipendenza e pur di mantenerla preferirono allearsi con altri comuni ostili a Todi. I Montemarte si coalizzarono con Orvieto ed i Marscaino con Perugia, rallentando notevolmente la penetrazione del comune tuderte nelle aree a questi sottoposte.
Il comune di Todi per quanto coinvolto in laceranti lotte intestine tra lo schieramento filo imperiale dei ghibellini e quella filo papale dei guelfi, seppe caparbiamente rafforzare la sua ormai indiscussa autonomia istituzionale e militare ed ampliare robustamente il proprio dominio fino a sottomettere Amelia nel 1208 e Terni 1217. Altro impegno per Todi fu l’organizzazione del comitatus tudertinus secondo una razionale suddivisione amministrativa tale da permettere di controllare anagraficamente la popolazione e attuare una capillare imposizione fiscale e per ultimo ma non meno importante garantire una solida struttura militare.
Fu così che alla fine del XIII secolo il contado venne suddiviso in 19 circoscrizioni denominate Plebati che prendevano il nome dalla pievi alto medievali, all’interno dei quali erano compresi un certo numero di castelli e ville. Montignano venne ascritto al plebato di San Faustino che era la chiesa abbaziale più influente insieme a San Fidenzio e Terenzio da cui prendeva nome l’altro plebato della zona.
Le ville ed i castelli del plebato di San Faustino oltre Montignano che contava 21 famiglie erano : Valle Logna con 30, Ragio con 6, Santa Maria in Pantano con 6, San Faustino con 44, Popolano con 21, Riganetre con 16, Cantalupo con 14, Piano di Collemedio con 13, Calcinare con 11, Poggio San Martino con 16, Mezzanelli con 19, Capitelli con 17, La romita di Santa Lucia con 12, Burchiano con 19, Valle petrosa con 17, Acquasparta con 195, Collari e Pietrarossa con 17, Foresta con 13, Olivola con 13, Configni di San Clemente con 7, Configni di Santo Stefano con 17, Castello di Ripa Vorgna con 10, Lucignano con 33, Trilli, Forcelli e Lardichi con 52, Casigliano con 41, Rosaro con 91, per un totale di 759 famiglie.
Da alcuni calcoli demografici fatti sulla popolazione italiana del XIII secolo si è soliti considerare come media per ogni famiglia 5 persone questo significherebbe che, in linea di massima, Montignano fosse abitata da 105 uomini nel 1292 anno in cui fu redatto il liber focularium ossia il libro dei fuochi, delle famiglie. I capifamiglia elencati nel testo del 1292 della Villa di Montignano sono:
Jacobonus Tudini
Polectus Gilij
Philipponus Gilij
Solda**s Maffucci
Johannonus Cristene
Petrus Alluminate
Nicolecta Gilioni
Salomon Venture
Johannonus Andreoni
Ugolinellus Greci
Johannutius Andree
Johannonus Complite
Polellus Andree Fabri
Johannes Benvenuti
Jacobu et Petronus Nicole
Johannonus Fractoni
Nicola Andreoni
Heredes Polecti Gili
Johannes Massarucci
Jacovellus Soldani
Nel 1300 il comune di Todi era dotato di una temibile cavalleria mantenuta dalle famiglie più ricche della città e dei castelli del contado i quali, in base al loro reddito, garantivano il mantenimento di uno o più cavalli. Per quanto riguarda il castello di Montignano nel registro denominato dell’Accavallata in cui sono elencati nominalmente coloro che provvedevano a questa spesa, abbiamo menzionati gli eredi di Masseo che fornivano un cavallo, gli eredi di Allegro per un cavallo e gli eredi di Filippuccio di Giovanni sempre un cavallo tutti della casata feudale dei nobili Montignano.
Le vicende interne al comune di Todi agli inizi del XIV secolo furono motivo di forti tensioni. Si fronteggiavano da una lato i così detti magnati ossia quelle storiche casate feudali ancora indomite e non rassegnate all’idea di lasciare il comune al “Popolo”: una aggregazione composita formata dal ceto artigiano, all’ora il nerbo della produzione economica, dalla nobiltà minore e da parte della aristocrazia feudale più lungimirante, che aveva preferito schierarsi a favore di questo gruppo.
La questione trovò una drastica soluzione nel momento in cui il comune di Todi, definitivamente passato nelle mani dei Popolari che avevano sopraffatto la fazione magnatizia, nella stesura dello statuto comunale, ossia la raccolta organica delle leggi che regolavano democraticamente la vita pubblica e privata della comunità, elencò nella rubbtica 70 tutti le famiglie del ceto nobile estromesse dal governo e dalle cariche cittadine poichè considerate pericolose e turbatrici della quiete pubblica.
Nella rubrica sopradetta dello statuto non vengono elencati, in questa specie di lista di proscrizione, i nobili di Montignano segno che la consorteria familiare aveva preferito dare sostegno alla parte popolare e antimagnatizia. La famiglia con questa scelta si era frontalmente schierata contro altri casati illustri appartenenti al loro ceto e che confinavano con Montignano quali i nobili di Acquasparta, i nobili di Mezzanelli o i nobili di Villa San Faustino. Una gesto coraggiosa ma lungimirante nel capire quale sarebbe stato il partito vincente e ad esso, almeno momentaneamente, unirsi per non essere estromessi del nuovo assetto politico comunale.
Nonostante i membri di questa famiglia non siano stati elencati nello statuto, gli storici del seicento ne hanno egualmente ricomposto le filiazioni ricavandole dai catasti trecenteschi del Comune dove così vengono riportati:
De Nobilibus de Castro Montignano
Andreallus Ugolini Mascioli
Jacobutius Ugolinelli Mascioli
Polellus Ugolinelli Mascioli
Matheuccius Androni Massei
Peregrinus Joannuctis
Cicconus Baldini
Albertus, Angelellus et Masseus domini Bernardoni
E’ questo l’unico riferimento documentato circa la genealogia di questa casata nobiliare di cui dopo il 1337 si perdono le tracce. Non sappiamo infatti se poi i discendenti dei nobili di Montignano abbiano fatto germogliare altre famiglie aristocratiche come i Matalucci ed i Massei, presenti nell’ambito territoriale di Montignano già dal XV
Un dato interessante sta nella definizione di Castrum che viene attribuito a Montignano, prova inequivocabile che, rispetto al liber focularium del 1292 in cui si parlava di Villa, adesso il paese era stato potenziato con una cinta muraria difensiva. Le opere di difesa del castello facevano si che Montignano assumesse ora un compito militare di notevole portata data la sua posizione sulla sommità di un colle. Dalle mura e dalle sue torri si dominavano tutti gli altri castelli circostanti e si riusciva agevolmente a sorvegliare ben tre direttrici viarie quale la Flaminia che passava ad est, la strada romana che scorreva ad ovest e per ultimo la piccola via di collegamento tra la Flaminia e Todi detta la strada della Cicognola. Mettere statuto passi da difendere
5. ATTI E CHIARAVALLE
Fo guerra in Tode tra lo populo et li boni homini cioè gibellini 1168. Con queste parole lo storico Gian Fabrizio degli Atti apre la sua cronaca cinquecentesca narrando di come in quell’anno ebbero inizio i violenti ed interminabili scontri armati tra i ghibellini ossia i boni homines ed il Popolo legato alla parte guelfa. Una guerra lunga di oltre tre secoli che vide come paladini dell’una e l’altra fazione due potenti famiglie intorno a cui si raccolsero i seguaci dei contrapposti schieramenti: gli Atti di fede guelfa ed i Chiaravalle di fede Ghibellina.
Si trattò di una lotta senza quartiere intervallata da tregue momentanee e da feroci spargimenti di sangue che interessarono non solamente Todi ma anche ogni singolo castello del contado ora devastato, ora messo a ferro e fuoco senza scrupolo ed ovviamente anche Montignano non restò indenne.
La guerra non poteva che impoverire ed indebolire la città che ne restava sfiancata internamente e, per tali motivi, nel 1242, il contingente di Perugia entrò a Todi non appena l’imperatore Federico II ebbe messo al bando gli esponenti della famiglia Atti. Una volta rientrati dentro le mura i guelfi vennero di lì a pochi anni scacciati, era infatti il 1254 quando, per l’arrivo in città del capitano Mattia Gaetano d’Anagni, mandato da re Manfredi in Toscana, la parte chiravallese approfittò per cacciare gli Atti da Todi ma Pandolfo dell’Anguillara, Ranuccio Farnese e Guglielmo Santafiora insieme a duecento cavalieri furono mandati dal Pontefice per riprendere i territori persi.
Gli imperiali vennero travolti sulla piana dell’Ammeto nei pressi del castello di Marsciano ed il partito guelfo si ristabilì in città. L’anno seguente gli indomiti uomini dei Chiaravalle lanciarono un altro assalto ai guelfi ricacciandoli con l’aiuto delle forze imperiali di Corradino di Svevia.
Per tutto il XIII secolo il territorio comunale continuò ad essere il campo di battaglia di questo interminabile duello che non faceva altro che sfiancare il già precario equilibrio politico del comune. La parte ghibellina agli inizi del Trecento contava anche sull’appoggio della famiglia romana dei Colonna per tradizione avversa al Papa.
Correva l’anno 1310 e la voce diffusa della discesa in Italia dell’Imperatore Arrigo riaccese lo spirito di vendetta dei Chiaravalle. L’ultimo giorno di agosto dello stesso anno un manipolo di mercenari capeggiati dal condottiero romano Gentile Orsini insieme ai guelfi di Perugia e Spoleto mosse verso Todi per sottrarla ai ghibellini. Terminate alcune scaramucce, il dodici settembre, si affrontarono apertamente in battaglia a Monte Molino: tra prigionieri e caduti si contarono 700 soldati. Non mancarono poi ritorsioni, saccheggi e razzie in tutti i castelli della zona. I Chiaravalle intanto nel 1337 rafforzarono pesantemente la loro posizione strategica nel quadro delle fortificazioni con l’acquisto del castello di Canale.
Gli ambiti geografici di Montignano, rimasto di fede guelfa grazie anche alla famiglia Matalucci signora del luogo e alleata degli Atti, non restarono immuni a questi conflitti. Mezzanelli nel 1471 fu scaricata da un attacco congiunto tra i guelfi di Spoleto e di Todi, l’anno seguente i Chiaravalle si erano impossessati di Camerata e poi di Sobrano, Rosceto, Casigliano, Mezzanelli, Rosaro e Collesecco guadagnandosi il primato sul versante sud est del comune di Todi, forti anche dall’appoggio di una parte della famiglia dei nobili di Acquasparta, militarmente insediata tra Massa e Acquasparta.
Montignano, accerchiato ed isolato, cadde in mano ai ghibellini. Nel 1476 è al centro di una violento assedio in questo caso sferrato dagli Atti, intenzionati a riprendersi il castello. Scrive Giovanni Battista Alvi in merito a questa vicenda “…I guelfi si portarono a sorprendere con cavalli e fanti questo castello ed assalitolo con grand’impeto lo saccheggiarono e diroccarono in buona parte e li chiaravallesi posti in fuga si rifugiarono nella rocca di Cesi”.
Un panorama desolante che metteva in ginocchio il castello e le sue difese ormai rovinate e bisognose di risarcimenti con l’aiuto di tutta la popolazio. Si aprì finalmente una tregua, seppur momentanea, nel 1495: nella chiesa di Monte Molino iniziarono i trattati per stipulare una pace tra la parte guelfa e quella ghibellini. I primi erano rappresentati da Antonio di Almonte degli Atti, Isolo di Antonio Stefanucci, Giovanni Gregorio di Scarlattino degli Uffreduzzi, Serafino di Gaspare Massimi ed Cherubino di Angelo Matalucci di Montignano.
I ghibellini dal canto loro avevano Messer Ulpiano di messer Riccio Bozi, Cecco di Leonardo Amori, Alberto di Ginolfo Benedettoni, Ercole di ser Ridolfo Ridolfi, Giovanni Benedetto di Tommaso Saturnini. La pace tra le due famiglie venne resa pubblica nel 1496 ma fu di breve durata. Altobello Chiaravalle, capo della famiglia, insieme ad i suoi armati il 6 settembre del 1499 irruppe nel castello di Acquasparta passando a fil di spada gli abitanti e razziando ogni cosa. Gli eventi precipitarono rapidamente ed al diffondersi della notizia ci si preparava ad un inevitabile bagno di sangue.
Nel gennaio del 1500 il comune di Todi rimaneva paralizzato di fronte ad una sequenza di violente incursioni portati a buon fine dai Chiaravalle: Collelungo, Morre, Capecchio e Avigliano erano stati attaccati e gravemente danneggiati. Il papa, Alessandro VI Borgia, insieme alla figlia Lucrezia, governatrice di Spoleto, si convinse a risolvere una volta per tutte la questione dei Chiaravalle aggredendo la loro roccaforte: Acquasparta.
Il 16 agosto incominciò l’assedio condotto da un esercito ben armato, con cannoni e per di più guidato dai migliori uomini d’arme del tempo quali erano i romani Paolo e Fabio Orsini, Vitellozzo Vitelli di Città di Castello, Giovanni Paolo Baglioni di Perugia, l’abate d’Alviano e Ludovico degli Atti di Todi.
Montignano e Casigliano si trovarono coinvolti in quanto erano i due castelli guelfi meglio difesi in grado di proteggere le forze papali da eventuali attacchi esterni. Prima di lanciare l’assalto finale vi fu un lunghissimo bombardamento permettendo l’ingresso dei militi del Papa attraverso le brecce aperte nelle mura del castello. Seguirono saccheggi, devastazioni e la cattura di Altobello Chiaravalle il quale, nascosto nella casa di una vedova, fu preso e portato nella piazza del castello. Dopo averlo ben legato su un tavolo, furono invitati tutti gli abitanti a vendicarsi dei soprusi ricevuti: molte donne, cui erano stati uccisi i figli ed i mariti, si avventarono sul corpo di Altobello, strappandogli a morsi la carne, conficcandogli coltelli negli occhi e nel cuore. Così morì, fatto a pezzi, dilaniato dalla furia ceca della vendetta.
Furono tradotti in catene tutti i capi ghibellini tra i quali anche Girolamo, fratello di Altobello, e nei giorni successivi tornarono in mano guelfa molti castelli. Così aveva termine una crudele quanto epica e secolare lotta armata che dava alla famiglia Atti oltre che la vittoria anche la supremazia politica economica e militare sul comune ed il suo territorio.
6. IL CINQUECENTO ED IL SEICENTO:
I Matalucci e la vita nel castello.
Ai primi del 1500 la famiglia degli Atti, feudataria del castello di Casiglianio, deteneva enormi possedimenti terrieri che si spingevano fino ai limiti con Montignano proprietà almeno dal XV secolo di un altro lignaggio guelfo, alleato, oltre che imparentato, con gli Atti: I Matalucci.
E’ difficile stabilire le radici genealogiche di questa famiglia che per più di due secoli ebbe la maggior parte delle proprietà in questo castello, forse, rimanendo nel campo delle ipotesi, si potrebbe trattare di un ramo dell’antico ceppo dei nobili di Montignano. Il cognome familiare era generato da una donna chiamata Mataluccia, figlia di Gioacomo Mannuzi, che, vedova del primo marito Giovanni degli Atti, si era unita in secondi voti Jacobuccio di Ceccolo da cui nacque Angelo nel 1416 detto della Mataluccia.
Di questo Angelo è scritto che era Signore nel Castello di Montignano dove aveva molti beni ed abitazione: Nobilis Vir Angelus Matalutiis dominus erat in castro Montignani ubi multa habebat bona et domicilium. Purtroppo l’esiguità delle fonti non ci permette di documentare quale fosse con precisione la struttura del castello ma, sicuramente, dopo la prima devastazione avvenuta nel 1476, saranno state completamente risarcite le mura che lo cingevano ed anche potenziati i bastioni di cui ancora uno ne resta integro in tutta la sua possanza accanto al palazzo signorile. E’ uno dei migliori esempi di costruzione militare della zona, ancora incorrotto nelle sue parti principali quali la “scarpa” il “toro” e le classiche aperture per le bocche da fuoco, una architettura ricca di analogie con i vicini bastioni di Casigliano progettati dal Sangallo.
Le case dei Matalucci rimanevano dentro le mura, occupando lo spazio in cui attualmente si sviluppa il palazzo, sicuramente molto più frazionato e composto di singoli edifici. La proprietà terriere si divideva tra i Matalucci e gli Atti, questi ultimi adducevano dei diritti di proprietà anche su quello che era chiamato il lago di Montignano. L’origine di questo bacino lacustre era remota se dobbiamo prestare fede ad antiche cronache cittadine che narrano di come “il re Senna con tutto i suoi armati alloggiò vicino al lago della città eraclense (Todi), oggi chiamato di Montignano”.
Il lago, di medie dimensioni, qualificato anche come di San Faustino o di Santa Degna e comunicante con il torrente Naja, abbondava di tinche ed anguille e per questo il comune di Todi era solito affittarlo per 20 ducati d’oro all’anno come risulta dai consigli comunali del 1496. Gli Atti, signori di Casigliano, avevano prepotentemente annesso il lago ai possedimenti di famiglia tanto che, nel 1506, erano loro stessi ad affittarlo e non più il Comune.
La condanna fu unanime anche da parte degli abitanti dei castelli vicini tanto che ne scaturì una annosa questione tra il comune di Todi e la nobile famiglia. Nel 1529 la vicenda sfociò nel sangue ed ebbe come protagonista il giurista Girolamo Monticasti membro di una antichissima famiglia che prendeva il nome dal castello di Montecastro, nelle vicinanze di Montignano e Casigliano.
Girolamo, intenzionato a salvaguardare i diritti della comunità ma probabilmente anche preoccupato dalle mire espansionistiche degli Atti, anche a discapito delle sue proprietà molto prossime al feudo di Casigliano, nel 1529 cercò di opporsi in consiglio comunale. Così Pirro Alvi narrà l’accaduto: “…seduta stante uno degli Atti proponeva al consiglio che dichiarasse proprietà Attesca il lago di Casigliano. Udì la proposta il nostro Girolamo e sorse di scatto a combatterla ad oltranza poichè quella ledeva i diritti della Comunità di Todi. Fu tanta la forza dè suoi argomenti, tanta la convinzione ed il calore del dibattimento, essendo egli giureconsulto reputatissimo, che la maggioranza dei Consiglieri, abbracciato il suo parere si diè per vinta sì che l’attesca proposta fu respinta. Ne nacque un diverbio; voleasi reagire scattarono delle minacce; ma Girolamo tenne saldo contro la prepotenza degli Atti. Il dissidio parea composto. Finito il consiglio, nello scendere la gradinata del Palazzo dei Priori il nostro magnanimo Girolamo fu proditoriamente ferito di colpo mortale perde la vita e cadde vittima del proprio dovere.”
Con la morte di Giolamo che ricordiamo era anche il nipote di fra Gian Bernardino Monticasti confessore di Cristoforo Colombo nel viaggio alla scoperta dell’america, finì la contesa sul lago che poi fu lentamente prosciugato per guadagnare più terreno coltivabile. Benchè i Matalucci risultavano essere la famiglia più ricca e quindi più influente, il Castello di Montignao manteneva tuttavia una sua autonomia amministrativa sempre dipendente però dal Todi alla cui giurisdizione ormai era sottoposto a tutti gli effetti.
Il governo comunale era ben delineato con una certezza del diritto fondata sullo statuto e sulle magistrature cittadine: i priori, il consiglio segreto ed il consiglio generale. Anche nei castelli vi era comunque una minima potestà tale da consentire una gestione degli affari interni. A Montignano come negli altri castelli riscontriamo la figura dei Sindaci, scelti dagli abitanti del posto e tra le famiglie benestanti, a loro spettava l’ufficio di rappresentare il castello davanti all’autorità centrale ossia Todi e disbrigare questioni amministrative giuridiche e militari pertinenti al luogo. I Sindaci erano affiancati dai Massari, una specie di giunta amministrativa che doveva coadiuvare i Sandaci.
Alla base di questa struttur vi era il consiglio della comunità formato da tutti i capofamiglia i quali poi eleggevano i Sindaci ed i Massari. In questa piccola organizzazione locale non potevano mancare anche un deputato ecclesiastico incarico che, viste le dimensioni del castello, era sempre ricoperto dal parroco, e un camerlengo incaricato delle maneggio del denaro pubblico. I priori del comune di Todi spedivano molto spesso a Montignano precetti ed editti contenenti ordini e disposizioni rivolti sia alla popolazione che ai singoli abitanti del castello come ad esempio l’invito rivolto a Pasquino di Pascuccio nel 1573 a presentarsi davanti ai priori a Todi per fornire dei chiarimenti riguardo alcune parcellizzazioni catastali.
Il castello dovette nuovamente subire delle gravissimi lesioni a causa del passaggio degli armigeri francese visto che il consiglio generale del comune di Todi, nella seduta del 27 agosto 1577, deliberò di esentare la popolazione di Montignano dal pagamento delle tasse per “i danni patiti”. E’ con quest’ultimo avvenimento, legato ad una ancora poco stabile situazione politica italiana, che nel castello si riprese a costruire ed a tramutare la fisionomia architettonica, fino ad ora lasciata integra per assolvere ad una funzione esclusivamente difensiva.
Emergono nuove istanze per trasformare le case: ingrandirle e aprire finestre sulle mura segno di una popolazione crescente che necessitava sia di spazi abitativi diversi, meno angusti, sia di luoghi per sviluppare le loro attività artigiane A questo si affiancava il problema delle fogne e della pulizia delle strade su cui spesso si riversavano gli scarichi dei tracaselli delle case con ripercussioni di non poco conto per l’igiene della popolazione.
Per fronteggiare questi disagi il comune di Todi, nel dicembre del 1589, individuò gli abitanti che con i loro bagni sporcavano le strade e intimò loro: “ dobbiate avere sgombrato e nettato i formelli da ogni bruttura e sporcizia che vi fosse e sgombrato che sarà continuare ogni anno di nettarlo acciò non apporti per le strade bruttezza e fetore alcuno”. I primi a sentire il bisogno di intervenire sulle proprie case ed usare le mura castellane come facciata per il loro palazzo sono proprio i Matalucci come dimostra la richiesta avanzata da Francesco nel 1629 di potere allargare delle volte sulle mura castellane ed apporvi delle grate di protezione.
Il gruppo familiare in questi anni è al vertice del prestigio sociale ed economica ormai annoverata tra le famiglie più illustri della città tanto che il capitano Federico Matalucci nel maggio del 1624 ospitò nel suo palazzo sulla piazza di Todi il Duca d’Acquasparta Federico Cesi il Linceo insieme con la moglie la Duchessa Isabella Salviati e non è improbabile, vista l’amicizia e la vicinanza con Acquasparta, che il Cesi abbia incontrato il Matalucci anche a Montignano.
Nel 1628 l’altra famiglia notabile del castello: i Leli ottengono, dai fratelli Nicola e Giacomo di Giuliano, massari del castello, previa autorizzazione dei priori di Todi, la licenza per aprire delle finestre su una torre del castello, di poterla coprire con un tetto e all’interno ricavare una stalla da usare “per comodo” della loro abitazione. Va ricordato che nel castello vi era anche un forno ed un macello pubblico la cui gestione era appaltata dal Comune di Todi, con un considerevole introito di denaro.
A causa del forte stato di degrado le mura castellane urgevano di frequenti lavori di ripristino insieme con le strade interne ed esterne e la porta di accesso come denunciano i bandi della magistratura tuderte. Per la prima volta questo stato di abbandono viene evidenziato dai priori di Todi nel 1580 quando comandano agli uomini di Montignano di ristrutturare la strada che dal castello va verso Todi, e di rendere agibile il ponte sul fossato di Montignano con del buon legno per sorreggere anche i cavalli.
Nel castello si raccomandano i lavori di sistemazione del forno pubblico per la cottura del pane e della rete fognaria. Il 27 marzo del 1591 il cancelliere di Todi Ansuigi Pontano notificava ai Sindaci ed ai Massari di Montignao l’obbligo di riattare la muraglia accanto al “torrone” detto del signor Francesco (Matalucci) e di chiudere la porta del castello di notte e non aprirla mai e da ultimo tenere sempre pronta la polvere da sparo e piombo a sufficienza. Quest’ultima disposizioni induce pensare che il castello fosse munito anche di armi da fuoco probabilmente dei piccoli cannoni posizionati sulle mura e le torri .
Il 12 settembre del 1602 sempre i priori di Todi inviavano un editto che stabiliva nuovamente, entro il termine di un mese, di restaurare le mura castellane “che minacciano rovina” e nel contempo risarcire anche la porta del castello “che sia sicura di catenacci”, ben fortificata da solidi legni e si possa aprire e chiudere facilmente. A cinquanta scudi ammontava l’ammenda che la comunità di Montignano avrebbe dovuto pagare se non avesse applicato alla lettera tali disposizioni. Fin dal 1584 erano stati accordati due giorni ai sindaci per rifare le chiavi e le serrature della porta del castello la quale da troppo tempo ormai restava aperta anche la notte poiché le chiavi erano andate perdute.
Ma le mura di Montignano non dovevano trovare tregua ed un adeguato e definitivo restauro visto che, sebbene non vi fossero stati più transiti di truppe, nel gennaio del 1620 un violento terremoto le aveva in parte distrutte e reso pericolanti alcuni tratti. Fu deliberato quindi di scaricare tutte le porzioni di mura giudicati instabili per salvaguardare l’incolumità degli abitanti.
Altro aspetto su cui l’autorità comunale poneva attenzione era il mantenimento delle strade cui erano preposti gli abitanti dei castelli limitrofi i quali avevano l’obbligo di prestare un servizio gratuito di manutenzione. Gli uomini di Montignano, ancor prima del 1589, dovevano riparare quella che è la strada della cicognola con “bestie da soma, zappe, pale ed altri istrumenti atti al risarcimento a lavorare et accomodare i passi della strada pubblica che sono guasti “ rendendo così la strada percorribile anche alle carrozze.
Un problema da risolvere era la puntualizzazione esatta dei termini del castello e quindi anche del comune di Todi rispetto al vicino castello di Casigliano che nel 1620 era passato in feudo alla famiglia fiorentina dei Corsini, ormai naturalizzata romana. A tal proposito Lello Pasquini, il 19 agosto del 1620, dichiarava davanti ai priori di Todi che i signori Corsini attuali padroni di Casigliano usavano come propri i prati ed i pioppi intorno al lago di Montignano e vicino alla chiesa di Santa Degna ed anche i terreni attigui alla chiesa di San Faustino. Lello riferì di aver condotto al pascolo le sue bestie sui prati circostanti il lago ed il guardiano dei Corsini le sequestrò portandole a Casigliano.
Una testimonianza preziosa per capire la struttura demografica del castello alla fine del XVII secolo è rappresentata dalla “nota delle famiglie” compilata del parroco Don Cesare Marini. Dal documento si evince che nel 1682 a Montignano vi erano 33 famiglie per un totale di 125 abitanti, di questi 13 avevano tra i 60 ed i 70 anni di età mentre 50 erano gli abitanti tra 1- 20 anni a dimostrazione di una buona natalità.
La principale fonte di reddito era l’agricoltura e 14 famiglie su 33 lavoravano le loro proprietà, una famiglia soltanto viene qualificata “povera senza alcun reddito”. Le restanti lavoravano i terreni di nobili famiglie di Todi come Giuseppe e Vittoria Matalucci, Lucia Benedettoni, i Longari e Mario Petrucci.
7. IL SETTECENTO e L’OTTOCENTO A MONTIGNANO
Luogo di villeggiatura prediletto della nobiltà di Todi.
La Rivoluzione e l’Impero Napoleonico
Per quanto ormai nella prima metà del settecento vi fosse, almeno nelle nostre zone, un periodo di relativa tranquillità, non mancarono tuttavia frequenti scorrerie di soldatesche straniere lungo tutto il territorio tuderte.
Si trattava per lo più degli eserciti spagnoli, imperiali e francesi scesi in l’Italia a causa delle guerre di Successione. Questi conflitti interessarono l’Europa intera portando ad una ricomposizione della mappa delle famiglie regnanti del vecchio continente ed in modo particolare in Italia. Era infatti il 1738 quando un contingente armato spagnolo superiore ai mille uomini transitò prima per Massa e poi, sempre percorrendo la Flaminia, per Montignano con tutte le rovinose conseguenze per il castello i suoi abitanti e le coltivazioni circostanti.
La vita nel centro abitato era scandita dai soliti problemi quotidiani attinenti alla gestione del macello o, cosa più urgente, la riattivazione del forno della comunità, primaria fonte di approvvigionamento alimentare per gli abitanti come si arguisce da un carteggio del 1738 tra il governatore di Todi e la Congregazione del Buon Governo di Roma.
L’attività economica ruotava intorno ad un bilancio basato sulle entrata dell’affitto dei terreni e la riscossione dei frutti di censo e in uscita, la tassa sui legnami, suoi polli, le provvigioni ai massari del paese e le spese straordinarie per il mantenimento della chiesa, delle fonti, delle strade e delle mura castellane.
Sempre nel 1738, forse anche in considerazione dei passaggi delle truppe e dall’esigenza di avere una viabilità più agevole per soddisfare il traffico delle merci, si stabilì di riattare la strada che univa Todi a San Gemini. Anche in questo caso vi fu il reclutamento di persone e bestie prese dai castelli interessati, secondo la regola di un uomo per ogni famiglia da ciò apprendiamo che Montignano, nel 1738, contava 29 famiglie.
Nel XVIII secolo i Matalucci detenevano il maggior quantitativo di ettari e, a seguire, un altro casato, originario di Montignano, stava muovendo i primi passi verso una affermazione sociale ed economica: i Leli.
La famiglia traeva le proprie origini da un tal Giovanni Antonio di Cecco di Lello soprannominato il “bruttazzolo” ma i modesti natali non impedirono ai Leli di affrancarsi da uno stato di anonimato sociale ed iniziare una ascesa tale da portarli ad ottenere una chiara visibilità sociale tra la difficile e chiusa società tuderte.
Fu nel 1654 che Giovanni Antonio si unì in matrimonio con la nobil donna Brigida Prosperi e che il di lui fratello, Geronimo, conseguì la laurea in Diritto. A coronamento della rapida scalata, Paolo Filippo, figlio di Giovanni Antonio, impalmò Vittoria Matalucci. Furono tre momenti che inevitabilmente assicurarono ai Leli l’ascrizione al patriziato tuderte e, con l’alleanza matrimoniale di Paolo Filippo, una supremazia su Montignano insieme ai Matalucci: i secolari feudatari ora stretti a loro da vincolo di parentela. Lo smembramento del patrimonio Matalucci e Leli, provocato sia dalle vendite che dalle doti per le figlie femmine, attirò nel castello e nei luoghi limitrofi anche altre famiglie di Todi.
I fratelli Giovanni Antonio e Francesco Leli nel 1706 furono i primi ad alienare una consistente quantità di ettari ai nobili Flaminio, Pietro e Giuseppe Longari, legati alla famiglia di Montignano per via del matrimonio della sorella, Beatrice, con il sopracitato Francesco.
Il 20 marzo di quell’anno i Leli, tramite il procuratore Bonaventura Provveduti, che intanto aveva sposato Vittoria Matalucci rimasta vedova di Paolo Leli, vendettero ai fratelli Longari un palazzetto dentro il castello Montignano, alcune case, palombai, forni e terreni posti nei vocaboli di la fontana del Bottone, la strada del molino, le Carcerelle, il Colle, il Palombaro e la Torre, il tutto per la cifra di 1600 scudi.
Dall’esame dell’atto di vendita e dalle relative descrizioni si colgono le caratteristiche dei terreni venduti su cui si effettuavano le colture degli olivi, delle viti e degli alberi da frutto e, cosa non trascurabile, la presenza di fonti irrigue.
Queste qualità erano la riprova di una straordinaria fertilità dei campi di Montignano e di un clima così mite da offrire, oltre che riposanti villeggiature, anche abbondanti raccolti. Tali elementi morfologici, uniti ad una ottima salubrità dell’aria di mezza collina e una condizione ambientale così gradevole e temperata, elessero queste terre a luogo ideale per investire nell’acquisto di beni immobili e per trascorrere la villeggiatura in campagna: la così detta “ottobrata”.
La mappa completa delle proprietà ecclesiatiche e laiche in cui era ripartito il territorio di Montignano viene delineata dal catasto del 1742 in cui si elencano i proprietari con l’estensione dei terreni ed il valore, l’unità di misura è la quartengata che equivale a circa la metà di un ettaro.
Tra i possidenti ecclesiastici troviamo la chiesa parrocchiale di San Giovanni Evangelista con 58 quartengate, l’abbazia di Santa Maria in Pantano ne aveva ben 227, seguivano la parrocchia di Villa con 41 ed il beneficio dell’assunta con 40.
Per i privati vi era l’assoluta preminenza dei fratelli Carlo e Giuseppe Matalucci i quali raggiungevano la considerevole cifra di 480 quartengate ossia circa 240 ettari, immediatamente di seguito si collocavano i Longari con 192. Da notare la completa assenza della famiglia Leli, ormai residente in Todi in due palazzi, entrambi in via Cesia, la quale aveva venduto le possidenze di Montignano ai Longari, preferendo altre zone del tuderte. Anche i Benedettoni, alla cui stirpe apparteneva il famoso Jacopone da Todi, animatore della lirica duecentesca italiana, godevano di loro proprietà a Montignano ottenute grazie alle alleanze matrimoniali sia con i Matalucci che con i Longari.
E’ alla metà del XVIII secolo che si decidono strutturali modificazioni architettoniche: i Matalucci chiedono al comune di Todi di aprire altre finestre sulle mura castellane. Tutto ciò dimostra che sul versante sud del castello, nel tratto di mura compreso tra il grande bastione quadrangolare cinquecentesco, erano iniziati i lavori volti a rendere omogeneo un insieme di agglomerati medievali ora non più idonei alle esigenze della famiglia.
Fu così che le mura, come era avvenuto anche in altri castelli, vengono sfruttate per servire da facciata per il nuovo palazzo, gli ambienti interni si ingrandiscono, si ingentiliscono e si arricchiscono di quegli elementi architettonici che contribuiscono a delineare una dimora signorile.
Abbiamo un loggiato, una ca****la privata, ed un giardino, sempre interno, piccolo ma circondato da mura e ben curato. A rendere il tutto molto sontuoso una scenografica scalinata esterna con una doppia rampa appoggiata al portale d’ingresso, sempre ricavato sulle mura. Non saranno mancati anche degli affreschi i quali sicuramente avranno decorato le pareti ed i soffitti di alcuni ambienti del palazzo. Al pian terreno delle grandi cantine pronte ad ospitare gli strumenti per la vendemmia, insieme con altre stanze utilizzate come stalla per i cavalli, ricovero per i cani e deposito di ogni occorrente per l’attività venatoria.
Appena fuori dalle mura, a circa trecento metri dall’abitato di Montignano, negli stessi anni, i Longari iniziavano la costruzione di un Villino per la villeggiatura sui terreni precedentemente acquistati dai Leli. Il nuovo edificio venne chiamata comunemente “casino delle delizie”: un ampio caseggiato arricchito di un giardino e di una ca****la esterna impreziosita di decorazioni, dedicata alla Santissima Annunziata.
A cavallo tra la prima e la seconda metà del XVIII secolo questa fetta di territorio tuderte si trasformò in un centro di attrazione per la villeggiatura della aristocrazia. Oltre a Montignano, erano poste a breve distanza le une dalle altre Villa San Faustino, proprietà dei conti Massei, Rosceto, dei conti Francisci, Sobrano, dei conti Fredi e Torre Ceccocinella della nobile famiglia Benedettoni.
Dai palazzi cittadini le famiglie si spostavano in campagna in base ad un rito annuale che, sebbene i luoghi fossero vicini, prevedeva un grande dispiegamento di mezzi, con servitù, bagagli e tutto il necessario per poter ricostruire una temporanea corte tra gli aviti castelli e ville. Il soggiorno implicava la celebrazione di un insieme di riti riconducibili alla sociabilità aristocratica tra le famiglie: gli scambi di visite, le battute di caccia, preferibilmente alle palombe, piccole accademie per la recita di componimenti poetici estemporanei, giochi di società e tutto quello che poteva allietare la villeggiatura.
Intanto la famiglia Matalucci era prossima all’estinzione nella sua linea maschile: Lavinia, figlia di Giacinto Matalucci, a seguito un lungo e sofferto corteggiamento decise di accettare come sposo il conte Francesco Francisci di Todi. Il matrimonio fu celebrato nell’agosto del 1775 e ad esso seguì un sontuoso ricevimento in onore dei due sposi nel palazzo Matalucci prospicente la piazza di Todi. Lavinia portò in dote tutta la tenuta di Montignano, compreso il palazzo, che adesso andava ad aumentare il già ingente patrimonio Francisci.
Francesco, figlio del conte Domenico e della contessa Elena Prosperi, nasceva da una famiglia che era assurta a grande ricchezza, acquisendo anche la nobiltà di Todi, grazie anche ad una serie di ottimi matrimonio . Il ceppo familiare proveniva dal piccolo castello di Collesecco, vicino ad Avigliano Umbro, e si procurò la cittadinanza tuderte con Federico nel 1613.
Federico prese in moglie Maddalena Sperandei, sorella ed unica erede di Tommaso il quale viene definito dagli eruditi: “uomo ricchissimo di quel tempo il quale essendo morto l’anno 1663 venne a cadere in casa Francisci tutta la di lui opulentissima eredità”.
Il nipote di Federico, Francesco, fu l’artefice di un altro felicissimo matrimonio nel 1717 con Cornelia dei conti di Baschi, discendente da una delle famiglie più antiche e nobili dell’Umbria . Questo permise ai Francisci di unire il cognome ed il prestigioso titolo di conti di Baschi, essendo Cornelia ultima di sua casa.
Dal matrimonio tra il Francisci e la Matalucci non nacquero figli, al contrario Francesco morì prematuramente in un modo definito dai cronisti dell’epoca “fatto stupendo ed esemplare”.
Giunto a Roma per questioni inerenti alla sua carica di tesoriere del comune di Todi, dovette subire degli aspri rimproveri dal Cardinale per un libello anonimo e gratuitamente diffamatorio inviato da Todi all’alto prelato, contenente una fila di accuse al suo operato. Il Francisci ferito nell’onore di gentiluomo riprese la strada di Todi, turbato ed in stato confusionale. Giunto in città, pensò di ritirarsi alcuni giorni a Montignano, sperando di riacquisire la serenità perduta.
Il malessere però non dava alcun cenno di miglioramento, anzi aumentava tanto che, ormai attanagliato da una inarrestabile depressione, tentò un’altra strada: ritirarsi in convento. Stette sei giorni dai frati cappuccini dopodiché se ne ritornò nel suo palazzo di Todi vicino la chiesa di Santa Maria in Camuccia .
La mattina del 9 maggio del 1780 prese la fatale decisione di togliersi la vita convinto che fosse l’unico modo per lavare il disonore e così fece con un colpo di pi***la . Sulla scrivania della stanza aveva lasciato le sue ultime parole: “Impari il mondo tutto a viver bene e contento della sorte sua veda il fine di questo infelice che ha perduto tutto ciò che aveva fatto”. Montignano passò in eredità al fratello di Francesco il conte Carlo, cavaliere di Santo Stefano, che invece ebbe numerosa prole. Lavinia Matalucci, ora vedova Francisci, passò a seconde nozze con il tuderte Giuseppe Bovalini da cui ebbe dei figli che assunsero il cognome di Bovalini Matalucci continuandone il cognome.
Il 10 febbraio del 1798 anche Todi cadeva in mano francese. Entrò nella piazza un plotone di dragoni al comando del conte degli Oddi di Perugia: la città veniva quindi annessa al dominio d’oltralpe con forti aspettative di cambiamento ispirate dai principi rivoluzionari di libertà eguaglianza e fraternità.
In nome della Repubblica Romana si insediarono le nuove autorità cittadine per guidare il Cantone di Todi da cui dipendeva anche Massa Martana. A capo del Cantone tuderte fu designato Filippo Ercolani e, a seguire, le altre cariche vennero ricoperte da Carlo Antonini Prefetto Consiliare, Carlo Moroni di Massa Segretario, Angelo Berti Edile e Questore il conte Carlo Francisci.
Tutti i castelli vennero a loro volta raggruppati in diverse unità amministrative, composte ciascuna di tre castelli con a capo un Edile, una sorta di sindaco, e di un suo vice. Montignano fu unito con Villa San Faustino e Torre Lorenzetta sotto la guida dell’Edile Lorenzo Foschi e del suo vice Pietro Magni. Il Magni, che si proponeva tra i maggiori possidenti di Montignano subì pesanti tassazioni per fornire biada e fieno agli squadroni di cavalleria francesi acquartierati a Todi.
Tra le alterne vicende dell’occupazione gallica si arriva al 1809 anno in cui abbiamo compiutamente disegnata la suddivisione regionale voluta da Napoleone. L’Umbria è compresa nel dipartimento del Trasimeno con capoluogo Spoleto sede della prefettura, a Todi era stato attribuito il ruolo di sottoprefettura con una competenza che arrivava fino ad Acquapendente. Massa Martana, posta nel Circondario di Todi, fu sede di Cantone, ossia comune, da cui dipendevano anche una serie di castelli che poi andranno a formare la struttura del moderno Comune.
Nel 1810 a capo del cantone fu posto un maire, ossia un sindaco, carica che andò a ricoprire Gioacchino Orsini, un suo Vice, Luigi Orsini ed un consiglio composto da Luigi Luzi, Gioacchino Ceroni, Pietro Gherardi, Giacomo Fonzi, Gaspare Orsini di Castel Rinaldi, Giuseppe Rocchi, Antonio Orsini Federici e Pietro Rossi. Dipendevano dal Cantone di Massa Casigliano, Rosaro, Colpetazzo Torre Lorenzetta, Mezzanelli, Villa San Faustino, Montignano, Viepri, Castel Vecchio, Torri, Barattano, Castel Rinaldi e Torre Teccona. Il governo di ogni castello era mantenuto da una persona denominato aggiunto del Mair. A Montignano, che aveva in qualità di aggiunto Felice Bacci, nel 1810 si contavano 137 abitanti.
Dal nuovo assetto istituzionale napoleonico con tutti i castelli sganciati dall’orbita tuderte, compreso Montignano, sorgerà poi il comune di Massa. Una operazione fortemente voluta dal ceto dirigente massetano che, nonostante gli apparenti sconvolgimenti rivoluzionari, non aveva subito la minima flessione di potere.
La cura degli affari della comunità restava nelle mani delle famiglie della nobiltà di Massa, come ad esempio i Ceroni, i Luzi, i Fonzi, i Mannoni, gli Orsini, i Piervisani ecc., le quali, passata l’esperienza napoleonica, troveranno maggiori stimoli dalla notevole crescita territoriale del comune.
Caduto Napoleone e restaurato il governo Pontificio a Montignano si ripresero le vecchie abitudini che probabilmente non erano state stravolte più di tanto dal vento rivoluzionario. Il 15 gennaio del 1819 veniva venduta la Villa dei Longari: il casino delle delizie che, dopo il palazzo dei Francisci all’interno di Montignano, abbiamo visto essere una delle dimore più rappresentative per le vacanze di ottobre.
La villa con l’intera tenuta erano stati trasmessi in eredità al conte Filippo Accursi figlio di Liutgarda Longari ultima della famiglia la quale aveva trasferito tutte le sue sostanze in casa Accursi. Il nobile massetano Gioacchino Orsini acquistò lo stabile di venticinque stanze posto in vocabolo il Palazzo insieme alla piccola ca****la della Villa per la cifra di 450 scudi. Dall’atto di vendita apprendiamo che l’Orsini aveva precedentemente comprato le terre dei Longari e dei Francisci, divenendo ora il proprietario più facoltoso insieme ai Francisci stessi.
Nel 1786 Gioacchino ed il fratello Luigi, dottore in diritto e vice governatore di Massa, ricevettero in enfiteusi dal cardinale Cesarei di Perugia tutti i terreni di proprietà dell’abbazia di Santa Maria in Pantano.
Il 6 luglio del 1822 i possidenti di Montignano scrivevano a Roma per evidenziare il grave pregiudizio loro arrecato dal divieto di irrigare i propri possedimenti, sfruttando l’acqua proveniente dalla Fontana di Santa Maria in Pantano. Gli abitanti rivendicavano l’antico diritto da sempre goduto di utilizzare l’acqua che scorreva lungo circa tre chilometri prima di sfociare nel Naja.
8. DAI FRANCISCI AGLI ALCINI
Il 4 ed il 5 novembre del 1860 ebbero luogo le votazioni per decidere in merito all’unità d’Italia, nel comune di Massa Martana gli inscritti a votare erano 1190, votarono 742 aventi diritto di cui 732 a favore dell’annessione al novello stato italiano e nove contrari.
Montignano, che all’epoca contava 278 abitanti, vedeva di nuovo nei Francisci di Todi i maggiori proprietari i quali continuavano, seppure con minor frequenza, ad usare il loro palazzo per le vacanze.
📷La nobile famiglia tuderte seppe brillantemente distinguersi nella vicenda risorgimentale di Todi grazie all’intraprendenza del conte Federico e di suo fratello Giuseppe, entrambi partiti volontari nelle guerre di indipendenza.
Federico molto impegnato in politica ebbe l’onore di consegnare personalmente i risultati elettorali del comune di Todi nel plebiscito del 1860 al re Vittorio Emanale II a Napoli. Ricoprì la carica di sindaco di Todi dal 1866 al 1873, caratterizzandosi per un forte dinamismo politico continuamente animato da inesauribile amore verso la propria città.
Tre furono le realizzazioni che più gli resero onore: la costruzione del teatro Comunale, l’allestimento del Museo Civico e la sistemazione della Rocca. Tre imprese che si contraddistinsero, specialmente quella del teatro, per un cospicuo esborso di denaro che, in quella che era chiamata l’Italia dei galantuomini, fu in parte sopportato dalle casse familiari del conte Federico.
La situazione finanziaria dei Francisci, alla fine del XIX secolo, godeva in linea di massima di buona salute, ma questo non impedì di iniziare ad alienare alcuni loro possedimenti come quello di Montignano. Forse la distanza da Todi e l’immediata necessità di capitali liquidi li costrinsero a rompere il legame con il loro castello che, in quanto eredi dei Matalucci, durava da oltre 4 secoli.
La vendita di tutta la tenuta avvenne il 28 novembre del 1887 con rogito del notaio tuderte Sebastiano Antonini. I conti Angelo e Federico Francisci, fratelli, insieme a Pietro, Carlo e Odoardo, figli di Angelo, cedevano per la somma di £. 90.000 tutti i loro diritti su Montignano a favore di Angelo e Vincenzo Tacchi, commercianti di Foligno che intono a quegli anni stavano compiendo rilevanti investimenti nel tuderte.
La tenuta, come risulta dall’atto notarile, era composta di cinque poderi denominati: Quadro, Nerone, Pisciarello, Palombaro e Casella, caratterizzati da vari tipi di colture oltre che svariate case coloniche per un totale di circa 130 ettari. Faceva parte della vendita anche il palazzo di Montignano, definito casa padronale “disposta su tre piani con diverse stanze”, vi era anche un Molino in vocabolo detto il Torrone.
I Tacchi tennero Montignano per 20 anni ma non vi risedettero quasi mai, limitandosi allo sfruttamento dei terreni disinteressandosi della manutenzione del palazzo delle case coloniche e dei contadini che le abitavano .
Un’ulteriore ed anche prevedibile cambio di proprietà si ebbe nel 1908, anno in cui tutta la tenuta fu comprata dalla famiglia Alcini di Massa Martana.
Il 9 giugno del 1908 Vincenzo ed Angelo Tacchi vendono ad Enrico Alcini, figlio di Giuseppe, ed a sua moglie, Caterina Corti, tutta la loro proprietà di Montignano nel Comune di Massa Martana ed in parte anche di Todi. L’azienda agraria è composta dai poderi di Quadro, Nerone, Pisciarello, Palombaro e Casella insieme al molino a grano sempre per un totale di circa 130 ettari. Insieme ai terreni gli Alcini entravano in possesso del palazzo di Montignano e, sempre nel castello, di altre tre case oltre ai vari edifici colonici dislocati nella campagna.
Con la famiglia Alcini si aprì per Montignano una nuova fase di sviluppo e di rinascita soprattutto per quello che riguardava la conduzione agricola. Enrico, nato nel 1864, proveniva da una antica famiglia massetana di possidenti e aveva ulteriormente rafforzato la sua già ragguardevole posizione economica con il commercio, dimostrando innegabili capacità imprenditoriali, all’ora rare nelle nostre realtà. Ilario Alcini nato nel 1795 e nonno di Enrico, nella lista elettorale del 1866 era tra i primi dieci uomini del comune di Massa con il censo più alto, su un totale complessivo di 90 elettori.
La famiglia elesse Montignano a sua stabile residenza e questa fu la ragione di tutti gli interventi di restauro e delle migliorie interne ed esterne al palazzo, come ad esempio gli affreschi in stile liberty che decorano i soffitti di alcune stanze o il riadattamento della scala esterna. L’impegno imprenditoriale di Enrico si tradusse anche impegno politico e civico secondo la migliore tradizione degli esponenti di quel ceto sociale dei notabili ottocenteschi .
Fu Sindaco di Massa Martana incarico che assolse nel migliore dei modi promuovendo di numerose iniziative mirate al miglioramento del Comune, primo fra tutti ricordiamo la costruzione del Cimitero Urbano, come testimonia una lapide posta a memoria nella chiesa del “sacro recinto”.
Morì prematuramente nel 1940 ma ciò non impedì che i suoi discendenti continuassero e continuino a mantenere inalterato il loro amore verso Montignano, orgogliosi di una ormai prossima centenaria tradizione familiare. Oggi agli albori del terzo millennio Montignano mantiene pressoché inalterate le sue caratteristiche di secolare castello immerso in una serenità ed una tranquillità unica, abbracciato dalla campagna incorrotta, vitale e riposante, in cui il tempo è ancora scandito dai ritmi del lavoro nei campi.